#11 Il teatro dell'identità
Ci alziamo ogni mattina e ci guardiamo allo specchio. Quel volto riflesso, lo riconosciamo davvero? O, meglio, riconosciamo chi c’è dietro quel volto? È facile pensare che ciò che vediamo sia semplicemente la nostra essenza: occhi, naso, bocca, tutti assemblati in un modo che, almeno in superficie, sembra coerente. Ma cosa c’è sotto la superficie? Viviamo in un'epoca dove la proiezione del sé non è più una semplice questione di interazioni faccia a faccia. No, ora siamo esseri ibridi, divisi tra la realtà tangibile e presenza virtuale. In ogni momento, proiettiamo un’immagine di noi stessi che è attentamente costruita, con la precisione di un architetto che lavora su un palazzo di specchi. Perché, diciamocelo, non siamo mai così come ci mostriamo. Invece, scegliamo la maschera più adatta alla situazione, alla persona, o, più cinicamente, al pubblico, reale o virtuale che sia.
Sin dalla nostra infanzia, ci viene insegnato come comportarci, come reagire, cosa dire, quando tacere. È come se qualcuno ci consegnasse una guida per essere accettati: “Ecco, così dovresti presentarti al mondo. Cosi si fa!!!”. E con il passare degli anni, ci abituiamo a seguire quella guida, a modificarla con piccole variazioni, a crearci nuove versioni aggiornate. Il nostro IO autentico? Probabilmente è rinchiuso da qualche parte, coperto da una collezione infinita di maschere: il professionista sicuro di sé, l’amico empatico, il partner comprensivo, la persona che dice ciò che pensa. Ogni maschera ha la sua funzione, il suo pubblico di riferimento. È quasi ironico quanto diventiamo bravi in questo gioco. Ma c’è un prezzo da pagare. Più maschere indossiamo, più diventiamo estranei a noi stessi. In effetti, alla fine ci dimentichiamo perfino di chi siamo. Siamo diventati l'immagine che abbiamo creato per gli altri, o meglio, per il mondo. Una proiezione di ciò che pensiamo sia desiderabile, accettabile, ammirabile. Ma chi è l'autore di questa immagine? Siamo noi, o è la famiglia, la società che ci ha plasmato?
E poi c’è la maschera digitale, l'avatar, quella proiezione iperrealista di noi stessi che vive nel mondo virtuale. Se nella vita reale possiamo almeno vedere le espressioni facciali degli altri, nel regno digitale siamo completamente liberi di reinventarci. Ogni post, ogni foto, ogni storia pubblicata è una rappresentazione di noi stessi che viene filtrata attraverso la presunta perfezione estetica o intellettuale. In questo mondo, possiamo essere chiunque. Costruiamo un personaggio che proietta ciò che vogliamo mostrare, mentre tutto il resto viene deliberatamente nascosto. La tristezza, la vulnerabilità, il fallimento, la frustrazione – tutte queste cose vengono tagliate come scene non necessarie di un film.
Non possiamo permetterci di mostrarci per come siamo realmente, perché la società digitale e reale, con le sue regole invisibili ma onnipresenti, ci costringe a mantenerci in uno stato di perenne performance. Il problema di indossare costantemente una maschera è che, alla lunga, diventa difficile toglierla. Diventiamo prigionieri delle nostre stesse proiezioni. La nostra immagine diventa un fardello, un ruolo che dobbiamo interpretare ogni giorno, senza tregua.
C’è un sottile piacere in tutto questo, lo ammetto. C’è qualcosa di confortante nel sapere che possiamo modellare la percezione degli altri. Ma, allo stesso tempo, c’è una profonda stanchezza. Indossare una maschera richiede energia, e più è elaborata, più difficile diventa sostenerla. Alla fine, ci ritroviamo esausti, svuotati, senza sapere più chi siamo davvero. Forse è per questo che alcuni di noi cercano rifugio nella solitudine. Quando siamo da soli, non abbiamo bisogno di indossare maschere. Non ci sono spettatori, nessuno da impressionare, nessuno da ingannare. Eppure, la solitudine stessa può diventare una maschera. Ci isoliamo dal mondo per evitare il giudizio, per evitare la fatica di dover essere costantemente all’altezza delle aspettative altrui.
Togliersi la maschera è l’unica vera soluzione. E’ anche un atto rischioso con non poche conseguenze. Cosa accadrebbe se ci mostrassimo per come siamo veramente? Saremmo ancora accettati? Saremmo ancora amati? O verremmo scartati come una versione obsoleta di un software che non è più utile? Il problema è che siamo così abituati a indossare la maschera che, anche quando vogliamo toglierla, non sappiamo più come fare. E quando ci proviamo, ci rendiamo conto che in realtà occorre fare un altro passo, ovvero conoscere altre persone senza maschere, disposte a guardarci negli occhi e a dirci: “Va bene così, sei abbastanza”.
C’è spazio per una piccola breccia in questo teatro di specchi, una crepa da cui possa filtrare un raggio di autenticità. Perché, alla fine, indossare una maschera è un atto di difesa. Ci protegge dal giudizio, dalle critiche, dal dolore. Ma non ci protegge dalla solitudine, né dal senso di alienazione che deriva dal vivere una vita di proiezioni. E forse, nel momento in cui avremo il coraggio di gettare via almeno una delle nostre maschere, troveremo una connessione più profonda non solo con gli altri, ma anche con noi stessi.
paolo
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