#3 Oltre l'umano.
Osserviamo impassibili e indifferenti le persone ricurve sui propri dispositivi. È questa la nostra inquieta normalità. Immagina per un momento di chiudere gli occhi e percepire la tua pelle fondersi lentamente con circuiti e fili, il suono dei tuoi pensieri che si mescola al ronzio di un processore, la tua essenza che si diluisce nel flusso di dati digitali. Dove finisce l’umano e inizia la macchina?
Ogni giorno affidiamo pezzi della nostra memoria a dispositivi elettronici, delegando emozioni e relazioni ad algoritmi. Ma cosa stiamo guadagnando in cambio? Sicuramente un potenziamento, una capacità di superare i limiti biologici che ci hanno sempre definito, ma solo a beneficio di chi sa davvero usare queste tecnologie.
Eppure, non posso fare a meno di chiedermi se stiamo perdendo qualcosa di più profondo. La fragilità, la vulnerabilità, quei momenti di incertezza che ci rendono umani, rischiano di essere cancellati da un mondo dove tutto è misurabile, prevedibile, ottimizzato. Stiamo costruendo le fondamenta di una nuova identità, un ibrido tra carne e silicio, e forse, in questo processo, stiamo ridefinendo cosa significa essere vivi.
In questo equilibrio precario, tuttavia, c’è anche una sottile malinconia, un senso di perdita. Come se, nel tentativo di diventare più forti, più intelligenti, più connessi, stessimo sacrificando qualcosa di essenziale. Forse la nostra umanità si dissolverà in qualcos’altro. Forse ci fonderemo con un mondo dove ogni aspetto della nostra esistenza potrà essere programmato e monitorato.
E allora, questa fusione tra uomo e macchina è davvero un’evoluzione? O è l’inizio di un viaggio verso una nuova forma di solitudine, una solitudine in cui non siamo più nemmeno sicuri di cosa siamo? Forse l’unica risposta è che il futuro è un territorio inesplorato, e ogni passo che facciamo in avanti ci porta più lontano da ciò che eravamo, verso qualcosa di completamente nuovo. Ma una cosa è certa: non possiamo più tornare indietro.
paolo
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